Seconda Cronaca indossa una Seconda Pelle

di Franco Farina

Se Pisa diventa tutta un luogo proibito, tutto diventa diverso; se la curiosità investigativa, che è la molla principe del nostro giornalismo, è interdetta, le nostre indagini risultano infattibili e devono essere quanto meno rimandate. Se il rapporto di scambio/condivisione instaurato con i lettori è oggi per niente raccomandabile, i nostri riti di scambio diretto portati avanti negli eventi sono sospesi (peccato perché nel nostro ultimo numero ne avevamo di cose da raccontarvi…). Se tutto è diverso, Seconda Cronaca deve diventare diversa, essere “altro” da sé. Non mutare pelle, ma quanto meno indossarne una seconda, straordinaria. 

E infatti siamo qui, in digitale, in rete prima che in cartaceo, che invece è la nostra prima scelta editoriale su cui ci siamo orgogliosamente inventati. In tempi di coronavirus abbiamo ideato un vascello nuovo, questo, per continuare a informarvi e a riflettere con voi, magari proponendo prospettive e sguardi non facili ed immediati.

Cosa cambia

In questa seconda pelle, Seconda Cronaca diventa anche un po’ prima cronaca. Impossibile non parlare del Virus che tutti tiranneggia, ma cercheremo di parlarne in modo un po’ particolare, quasi sempre tangenziale al problema; tranne nella nostra declinazione fotografica che invece continuerà a essere esplorativa dell’apparentemente unica notizia del giorno.

Cambia il nostro modo di scrivere, perché, a nostro modo di sentire, deve cambiare anche il modo di guardare e raccontare la realtà; se in tempi normali pratichiamo un professionale distacco dall’argomento trattato, cercando di dare informazioni prima che giudizi, qui saremo più inclini ad accettare l’inevitabile coinvolgimento nella situazione cercando/permettendoci anche un contatto empatico col lettore. Tutti concittadini, tutti coinvolti/stravolti nella situazione che ci muta, che ci ha già cambiato, cercheremo comunque di mantenere lucidità professionale nella scelta degli argomenti e nel modo di passarveli.

Saremo più rapidi nell’aggiungere i nostri pezzi, che saranno di lunghezze maggiormente variabile, più reattivi a quello che accade, più o meno a braccetto con l’occhio fotografico.

Cosa non cambia

Non cambia la pretesa di pensare e cercare il non immediato e il non manifesto. La ricerca di un giornalismo policromo che non ama seguire il trend della commercializzazione della paura e dello scandaloso.

Non cambia la nostra voglia di progettare percorsi di indagine più lunghi, in grado di illuminare in modo straordinario e inedito anche ciò che ci sta vicino e che non abbiamo guardato con sufficiente attenzione. Sarà diverso, perché tutto è diverso, ma l’ostinazione dello sguardo vi promettiamo che resterà uguale.

«È il mio figlio maschio»

di Sandro Noto

Per Sonia Falaschi la sua cioccolateria è un crocevia di affetti. Così ha scelto di non chiudere ai tempi del coronavirus

Uno dei vocaboli che dominano l’attualità è “percorso”. Quell’immutabile sequenza di luoghi che da casa ci conduce alle poche mete consentite: cassonetti, supermercato, farmacia. Tracciati disegnati anche, chissà, dall’imbarazzante auspicio di ridurre la probabilità di incontrare persone.       

La strada della mia quarantena è via San Francesco, da cui transito la mattina per raggiungere l’edicola di Borgo Stretto. Mi allieta ogni volta constatare che, insieme al fruttivendolo, l’unica attività aperta è la cioccolateria “Bon Bon”. Ai miei occhi raffigura un afflato di umano desiderio che resiste alla tragedia.

Dal negozio vuoto, nella strada vuota, irrompe la voce di Sonia Falaschi mentre annota gli ordini al telefono. La sua espressività, coerente ai profumi e agli incarti colorati che la circondano, valica la mascherina. «La futilità della cioccolata è indispensabile per l’umore dei miei clienti abituali – mi confida – Per il mio benessere, invece, devo rendermi utile a loro. Così, poiché la mia licenza include la vendita di generi alimentari, continuo a lavorare trascurando i guadagni: la merce è scontata del 30% e la consegno gratis. Mi ricompensa assecondare le mamme del Sud Italia, che mi chiamano per regalare un uovo ai figli, studenti fuorisede costretti a trascorrere la Pasqua in solitudine. “Recapitare” il loro amore mi commuove».

Rievocando i quarant’anni vissuti nella sua bottega Sonia danza. Fulminea protende le mani verso gli scaffali per mostrare e decantarmi rare delizie che poi mi sprona ad assaggiare. Modula il parlato alternando ricordi allegri e malinconici. A un tratto, consapevole della sua intensità, sorridendo mi confessa: «Scusami tesoro, è la passione. Le mie figlie me lo dicono sempre, forse con un pizzico di gelosia: “Il negozio è il tuo figlio maschio”. L’ho concepito durante un viaggio in Canada nel 1979, ispirata dalle sontuose confetterie scoperte lì. Abbandonai così gli studi in biologia per seguire questo impulso. La nascita di Bon Bon rivoluzionò la proposta dolciaria della Pisa di allora. Offrivo infusi di svariate provenienze, salsa di cipolle, marmellate ungheresi. “L’ho preso da Bon Bon” si iniziò presto a dire in città per sottintendere la raffinatezza dei prodotti acquistati qui». 

Sonia poi sbalza dalle memorie al 2021: «L’anno prossimo andrò in pensione e cederò l’attività. Sarà innaturale però, perché…». Esita cercando le parole giuste. «Perché Bon Bon sono io».