QUANDO PISA ERA GOTHAM CITY
Il “Poeta”, “Giannilungo”, “Morandi”, la “Principessa”. Bizzarri personaggi che un tempo circolavano a Pisa, regalando spiazzamento e una certa dose di poesia. In questo articolo del 2014, uscito su un numero di Seconda Cronaca intitolato “I mestieri della notte”, Franco Farina li ricorda accostandoli a dei supereroi
di Franco Farina, illustrazione di Valerio Cioni
A un tratto in redazione, discutendo dei mestieri della notte, ci chiediamo se un supereroe pisano sia mai esistito, e con che poteri, nemici e missioni da eseguire. Formuliamo ipotesi, ironizziamo, ridiamo. All’improvviso mi torna in mente una galleria di personaggi. Gente di solito inserita nella casella “pazzi di paese”, gente che ora non c’è più a regalare spiazzamento e una certa dose di poesia. Gente che ogni giorno indossava una maschera che gli permetteva di stare al mondo, di giocare un ruolo. Sono loro i miei supereroi.
Per me prima di tutti c’era quello chiamato il Poeta. In assoluto il più notturno. Il Poeta era alto, vecchio e dinoccolato. Incedeva con un ritmo tutto suo, che si poteva dire lento, ma di falcata ampia. Portava il bastone, su cui si appoggiava forse un po’ per vezzo, e un fiocco nero al collo che gli valeva l’altro appellativo: l’Anarchico. Me lo ricordo a notte fonda tra i portici di Borgo o di piazza delle Vettovaglie. Ci stava così bene che sembrava pagato dall’ente del turismo. Poi lo ricordo quando saliva lento pede la maledetta scala a chiocciola del loggione del Teatro Verdi, dopo aver superato la maschera che mai si permetteva di chiedergli il biglietto. All’epoca i posti del loggione non erano numerati, così chi prima arrivava meglio alloggiava. La corsa s’interrompeva sempre alle spalle del Poeta, che imponeva i suoi ritmi. Anche il gridio si faceva sommesso. Poi giunto al più ampio spazio del cambio d’ordine, si faceva da parte consentendo alla folla il riprendere della corsa. Non ricordo se avesse un cilindro, ma l’avrebbe portato benissimo.
Poi c’era la Principessa. La Principessa è difficile da dire. Era silenziosa. Aveva come una specie di luce attorno. C’era all’improvviso, non l’avevi mai sentita arrivare. Una volta comparve dietro di noi in un palchetto da cinque del Teatro Verdi. Avverto una presenza dietro, mi giro e me la trovo lì, a metà di uno spettacolo di Giorgio Gaber. Avevo sedici anni. Lei sorride e dice sottovoce: «Non voglio dare noia, sto un po’ qui a vedere e poi vado via». Ma io ho le bimbe in palco con me a anche quella che insomma, sì, mi piaceva parecchio, e sono l’unico uomo presente. Mi guardano, ci guardiamo e faccio “sì, va bene” col capo, annuendo silenzioso e ostentando sicurezza. Ma per tutto il resto dello spettacolo, me ne sto uno sguardo al palco e uno mezzo indietro, a sorvegliare. Quando agli applausi mi decido a voltarmi del tutto, la Principessa se ne era andata. Chissà da quanto. La Principessa aveva la sua panchina in piazza Vittorio Emanuele II. Era la panchina di destra guardando la schiena della statua. Se per distrazione dei pisani si erano seduti sulla “sua” panchina e lei si presentava, veloci le lasciavano il posto che lei reclamava solo con un sorriso.
Poi c’era Morandi, che girava con la chitarra e cantava le canzoni di Morandi. La chitarra l’abbracciava in un abbraccio contorto, in alto, come si fa con un violino, e strimpellava con forza le corde, a strappargli il suono.
E c’era anche lo Sceriffo, ma a dir la verità lui era un eroe diurno. Mi affrontava con una smorfia sul viso e con le Colt in vita, dicendomi: «Ehi tu, dammi una cigaretta!». Io dicevo di no (all’epoca nemmeno fumavo). Allora lui mi ripeteva sempre più grintoso: «Allora me la dai sì o no questa cigaretta?!». Di solito al mio secondo no, aveva un fremito; poi con occhi dolci mi supplicava: «Dai, per favore, dammi la cigaretta». Studenti universitari più coraggiosi ingaggiavano veri e propri duelli, rotolandosi a terra dopo che lui aveva estratto le Colt e sparato. Io ho il rimpianto di non aver mai osato tanto. Lui non cascava mai. Non ne ha mai perso uno di quei duelli.
Poi c’era Giannilungo o Gianni Locco. Nel periodo in cui le auto avevano avuto la meglio sugli altri mezzi di locomozione urbani, lui decise di non entrare più col suo barroccio in città durante il giorno. Solo la notte era ritenuta idonea per portare a Pisa dei sacchi di farina col suo carro, che forse vendeva ai panifici. Così, nel cuore della notte, si sentiva da lontano il rumore degli zoccoli dei cavalli, e lo strusciare delle ruote. Gianni era anche alto, molto alto. Per quello lo chiamavano così. Diventò un po’ parente dell’uomo nero, quello che ti tiene “un anno intero”. I bambini più irrequieti venivano apostrofati con la frase “se non stai buono chiamo Giannilungo”, e avevano paura. Giannilungo era così lungo che il suo scheletro è esposto in uno dei musei dell’università. Anche se non mi ricordo quale.