Tra il cantiere e il mare c’è di mezzo il mare

Tutti gli ostacoli che i megayacht superano per prendere il mare attraverso il canale dei Navicelli. E se sei pisano e hai un gommone in Arno, puoi davvero andare a Livorno via acque interne?

Lungo il canale dei Navicelli sono presenti 8 darsene di diverse dimensioni e più di 20 aziende produttrici di yacht. Tra queste, una decina realizzano grandi imbarcazioni oltre i 40 metri di lunghezza. Quando le barche sono pronte per essere allestite degli interni presso altri cantieri (spesso nell’area viareggina) è il momento del trasferimento. Le imbarcazioni lasciano il cantiere che le ha costruite e per la prima volta prenderanno il mare. Il passaggio dal cantiere al mare, tuttavia, non è una mera questione di navigazione e richiede il coordinamento di 7 diverse infrastrutture: 4 ponti stradali, 2 ponti ferroviari (uno dei quali militare) e una porta vinciana.

La gestione delle 7 infrastrutture che esistono tra la Darsena Pisana e il mare è affidata a diversi enti e istituzioni. Riguardo al canale dei Navicelli, dopo qualche decennio di gestione da parte della Spa Navicelli di Pisa, di proprietà di Comune di Pisa, Provincia di Pisa e Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura di Pisa, la gestione è oggi nelle mani della Port authority di Pisa Srl, società nata nel 2022 con il Comune di Pisa unico socio.

Partendo dalla Darsena Pisana (la più a nord e maggiore tra le darsene del canale), la prima barriera che si incontra è il ponte mobile di Tombolo, un ponte levatoio a doppio raggio costruito lungo via Livornese. Salvo casi eccezionali, questo ponte viene aperto tutti i giorni per tre volte a orari stabiliti. La gestione è della Port authority di Pisa. Poche decine di metri più a sud si incontra il primo ponte ferroviario che è anche quello di più recente costruzione. È un’opera voluta e realizzata dal governo statunitense per collegare la base di Camp Darby alla rete ferroviaria. Il ponte è stato installato nel 2022 ed è ancora in fase di discussione se ne sarà affidata la gestione a Port authority di Pisa o se rimarrà nelle mani dei militari statunitensi. Si tratta di un ponte girevole che lascia spazio alle imbarcazioni in transito ruotando verso un lato del canale. I successivi 6 chilometri sono lisci, un rettilineo largo in media 35 metri e profondo circa 3 permette alle imbarcazioni di raggiungere la fine del canale senza incontrare ulteriori barriere architettoniche. Quando il canale dei Navicelli sfocia nello scolmatore dell’Arno il mare è a meno di 500 metri. Questa via, però, non è un’opzione per le grosse imbarcazioni per via dello scarso fondale alla foce dello scolmatore, incompatibile con il pescaggio dei grossi yacht, e di un’altra barriera architettonica, il ponte del viale del Tirreno, fisso e troppo basso perché le barche grandi ci passino sotto. Si parla da oltre un decennio di sostituirlo con uno mobile e di armare la foce dello scolmatore per permettere l’accesso al mare in sicurezza delle imbarcazioni. Nessun progetto ha però visto la luce. Anzi, è dello scorso marzo la proposta di Port authority di Pisa di sostituire il ponte con un tunnel. Esclusa la possibilità di attraversare la foce dello scolmatore, alle imbarcazioni provenienti dai cantieri pisani non rimane che raggiungere il mare attraverso il bacino principale del porto di Livorno, la Darsena Toscana. Operazione non immediata perché nei 100 metri d’acqua che separano il canale dal porto ci sono ben 5 barriere da superare. La prima è il ponte mobile di Calambrone, anch’esso controllato da Port authority di Pisa con due aperture al giorno, seguita a distanza di pochi metri dalle porte vinciane del porto di Livorno. Le porte vinciane sono uno sbarramento mobile che serve a separare le acque fangose dello scolmatore dai fondali della Darsena Toscana. Sono controllate dall’autorità portuale di Livorno e vengono aperte ogni giorno allo stesso orario del ponte mobile di Calambrone. Superato questo sbarramento mancano ancora un ponte ferroviario (girevole), il ponte stradale mobile di via Mogadiscio e la più inquietante infrastruttura di questa serie, il ponte mobile della Fi-Pi-Li: per permettere alle barche di raggiungere il mare bisogna alzare una superstrada. Oltrepassato il settimo ostacolo, alle imbarcazioni non rimane che attraversare il porto di Livorno e prendere il mar Ligure attraverso l’imboccatura sud del porto lasciandosi a sinistra l’ottocentesca diga della Vegliaia.

Negli anni recenti due nuove infrastrutture, entrambe governate da Port authority di Pisa, si sono aggiunte al meccanismo architettonico del canale dei Navicelli. Si trovano entrambe a nord della Darsena Pisana: il ponte mobile di via II Settembre e l’incile. L’incile è un sistema di chiuse che permette di superare la differenza di quota tra canale dei Navicelli e fiume Arno consentendo così la continuità della navigazione. Viene aperto su richiesta, dal lunedì al venerdì e da aprile a ottobre. Rimane chiuso per il resto dell’anno per via delle piene dell’Arno. È stato inaugurato nel 2019 con una bottiglia di champagne antisfondamento e, ai tempi dell’apertura, il Comune e le istituzioni coinvolte hanno sottolineato quanto l’incile non sia una questione esclusivamente industriale legata alla cantieristica navale. Anzi, l’adagio turistico del “collegare il fosso di Livorno al centro di Pisa” è stato in quelle settimane uno slogan inflazionato. Nel 2021 e nel 2022, Port authority di Pisa ha organizzato delle minicrociere, tra Darsena Pisana e scalo Roncioni sull’Arno passando per l’incile, a bordo di un battello. Non è però chiaro cosa debba fare un cittadino pisano per attraversare l’incile e recarsi a Livorno via acque interne. Così abbiamo provato a seguire le procedure. Il sito di Port authority di Pisa dice che per attraversare l’incile va compilato un modulo. Lo abbiamo fatto, rimanendo però bloccati al primo rigo nel quale il modulo richiede di inserire il “cantiere di arrivo”. Ci è sembrato un modulo relativo all’industria più che al turismo e allora abbiamo contattato via email Port authority di Pisa all’indirizzo segnalato per l’apertura dell’incile: registro@navicelli.it. Dopo 20 giorni di attesa e un sollecito, non avendo ricevuto risposta, ci siamo rivolti al Comune a un altro indirizzo presente nella pagina dell’incile: pm.segreteria@comune.pisa.it. Anche in questo caso, 10 giorni nel momento in cui scriviamo, nessuna risposta. Non ci rimaneva che provare con il caro telefono. La persona che ha risposto allo 050 26158 è stata molto gentile. Ci ha confermato che le imbarcazioni private possono attraversare l’incile gratuitamente. Ha però aggiunto che le procedure potrebbero cambiare e suggerito di richiamare in prossimità della nuova stagione di apertura ad aprile 2024. Non ci è stato chiarito, però, come compilare il modulo non avendo noi un “cantiere di arrivo”, ma volendo usare il nostro gommone di 6 metri per una minicrociera, così abbiamo chiesto, “dal centro di Pisa al fosso di Livorno”.

La maledizione del Viale

Nei due chilometri del viale delle Piagge, anche quest’estate, si sono riversati ogni giorno migliaia di cittadini. La bellezza del luogo contrasta con la mancanza di locali in cui è possibile ristorarsi, riposare o semplicemente incontrarsi. Solo alla fine del percorso, unica oasi a disposizione del viandante e degli atletici frequentatori, appare il bar Lilli

Dal tondo (la rotatoria davanti al Salvini) al Tondo (davanti a Lilli, pensato sin dalle origini come posto dove le carrozze potevano invertire il verso di marcia) sono 3113 passi (almeno i miei). Frequenziometro deambulante di presenze, conto nel tragitto di ritorno, in questo primo sabato di autunno (ore 17.45), 728 colleghi di Piagge. La cospicua fauna che popola il viale è evidentemente suddivisa in specie e sottospecie, e non sto parlando delle 64 specie di uccelli che la Lipu ha qui identificato, ma della fauna umana che ogni giorno dell’appena finita estate continua a popolare questo nostro prezioso ambiente.

Gli Stanziali. Quelli che se non piove li trovi sempre lì. Sottospecie: I giocatori di bocce dell’Associazione sportiva dilettantistica Pisa Bocce (156 passi dopo la partenza) e I Ragazzi del Muretto (1779 passi). Nutrita popolazione. Numero stabile.

I Passeggiatori. Due le sottospecie: i Camminatori lento pede. Vanno piano, ma vanno, spesso panchineggiano. Poi riprendono, perché un po’ di moto fa bene e almeno prendi un po’ d’aria; non proprio dei filosofi peripatetici, ma gente convinta, prevalentemente anziana. Popolazione variabile ma di numero costante. Da non confondersi con i Camminatori in modalità Cardio, camminano anche loro, ma “mi raccomando ad un certo ritmo! Perché sennò non serve a niente!”. Molto determinati, con outfit vagamente appropriato, senza pretese di tecnicismi. Popolazione in ampia crescita. Se li si incontra si raccomanda di scansarsi velocemente perché tendono a non virare in caso di ostacolo umano.

I Corridori in modalità jogging. Si dividono almeno in due sottocategorie: i Puristi, quelli che corrono solo sul viale e lasciano l’auto all’inizio o alla fine e lì rientrano puzzosi e sudati, scappando rapidi col sogno della doccia e/o del meritato cornetto, e gli Affluenti, quelli che nel fiume alberato ci arrivano già correndo da un po’ e alla fine defluiscono, discretamente, senza fermarsi mai. In entrambi i casi popolazioni migranti che non nidificano; inarrestabili e incorruttibili alle parole (che spezzano il ritmo) o ad una spuma (che corrompe la dieta). Sesso, estrazione sociale, età differenti. Rappresentano la maggior parte della popolazione.

I Corridori in modalità running, quelli che corrono davvero e non li distingui solo per le scarpette. Abili nello slalom necessario per evitare le altre specie. A volte scelgono i sentieri meno battuti più vicini al fiume. Una vera rarità.

I Ciclisti. Due sottospecie: I Cigolanti, quelli con bici di ogni giorno che sarebbe troppo elogiativo chiamare city bike; un po’ l’equivalente su due ruote di quelli che camminare fa bene e quindi perché no, e I Convinti, specie più rara, che nella varietà policroma si distingue per l’outfit vagamente tecnico. Gli esemplari di questa sottospecie ostentano smarrimento della serie: “Passo di qui solo per andare a fare qualcosa di più serio di là”. Quasi sempre solitari o in coppia, mai in branchi come in altre situazioni.

Rari gli avvistamenti anche della specie Vado alle Piagge perché è un bel posto e ci sono sempre eventi eccezionali che si possono vedere solo lì. Per alcuni studiosi, caso di mitologia urbana frutto di allucinate fantasie; per altri, specie non stanziale ma di passo, avvistabile solo nel periodo di maggio in occasione di alcune feste locali.

Tutti condividono la condanna ad una medesima sorte: durante tutto il tragitto non troveranno un solo ristoro in caso di necessità o desiderio; ed è strano che a tanta frequentazione effettiva e potenziale non corrisponda una proporzionale presenza di locali. L’ex bar Salvini è chiuso dal novembre 2020. Alessandro Trolese, 44 anni, vicepresidente della Confcommercio dal gennaio 2023 e portavoce del gruppo di investitori che si è aggiudicato la gara per la gestione del posto per 7 anni a dicembre del 2022, ci dice che aveva previsto i tempi burocratici che motivano al momento la mancata riapertura; ma ci racconta anche come ha dovuto provvedere a buttare via tonnellate di rifiuti e a far sloggiare una serie di homeless che si erano ben sistemati in quello che rimaneva del vecchio bar. Titolare di diversi locali in città, Trolese dichiara che i lavori dureranno 6 mesi e che prevede l’apertura di quello che si chiamerà “Chalet caffetteria bistrot alle Piagge” tra fine marzo e i primi di aprile 2024. Promette un luogo aperto tutti i giorni per tutto il giorno, con una cucina in grado di offrire ristorazione anche la sera. Un luogo come quello, di cui molti pisani sono innamorati, è giusto che nel suo cambiare pelle, resti in ascolto delle aspettative; ma annuncia che sarà pronto ad ospitare incontri letterari, culturali, mostre e un certo tipo di intrattenimento musicale. Un salto di livello che gli consentirà di coniugare la forza della memoria con uno stile nuovo, andando a costituire una proposta inedita per la città. Gli Stanziali delle bocce si dicono soddisfatti di una possibile prossima riapertura del locale e confermano che sì, in effetti qualcuno sta aggeggiando nell’area dei lavori, anche se non proprio a ritmi frenetici. Ma hanno la maggior parte del tempo gli occhi incollati sul pallino e non so se stimarli testimoni totalmente affidabili.

A metà viale c’era il bar ristorante “Alpaca” che all’apertura, nel maggio 2022, tromboneggiava dicendosi pronto ad essere il “nuovo locale in grado di far rinascere le Piagge”, con serate di aperitivo e raffinata musica dal vivo prevalentemente jazz e ha chiuso dopo meno di un anno con serate karaoke e uno sfratto esecutivo. L’esperienza precedente de “Le Ninfe” era durata qualche anno, ma confermava come quello sembri essere un posto un po’ stregato che non riesce proprio a prendere quota come la posizione sembrerebbe permettere. Qualche addetto ai lavori parla di limiti fisiologici (belli 800 metri quadri all’esterno d’estate, ma pochi i 150 all’interno per resistere d’inverno); troppo caro l’affitto (3500 euro mensili); altri liquidano la faccenda parlando di scarsa capacità imprenditoriale. Gli Stanziali come I Ragazzi del muretto ricordano i tempi dei fratelli Urio e Uria, figli di Bisirdo, gestori di quello che diventò l’Alpaca, che resistettero anche all’alluvione del ’49 e rimasero aperti fino all’inizio degli anni Ottanta. Per questo non credono alla maledizione del posto e nemmeno alla sfiga. Certo per loro quel bar dovrebbe rimanere quello che era un tempo: un posto per giocare a carte, incentrato sulla sana convivialità fatta di bicchieri di vino e caffè, in armonia col quartiere, cosicché quelli di loro che vogliono giocare a carte non dovrebbero essere ospitati dal prete di San Michele com’è ora. I Ragazzi del Muretto sono un’associazione storica del viale, fatta da ragazzi degli anni Sessanta, ora ottuagenari, depositari di una preziosa memoria legata alla Pisa industriale del secondo dopoguerra, cresciuti nel luogo dove nacque e prosperò la Richard Ginori. Ricordano un quartiere fortemente identitario fatto di posti di ritrovo privati o di corti. La memoria della fabbrica loro la vorrebbero mantenere anche con uno spazio museale all’interno del Centro Espositivo San Michele degli Scalzi dove sono custoditi molti macchinari che erano della fabbrica. Il sindaco è venuto a vedere i materiali conservati, ci dice Paolo Di Sacco, uno dei “ragazzi” più brillanti dell’associazione, ma come noto una decisione su cosa quel centro debba diventare è ben lontana dall’essere presa. Luogo di tante manifestazioni tutte un po’ in sordina, che possono essere effettuate anche grazie all’impegno del Comitato delle Piagge, il Centro era nato per iniziative continuative di ben più alta portata, e le meriterebbe. Questo non vorrebbe dire essere sordi alle esigenze dal quartiere, ma offrire ai cittadini, locali e non, eventi in grado di aggiungere ulteriore vita alla preziosità del viale.La voce Wikipedia dell’SMS oltretutto recita come questo sia “dotato di sale al chiuso e luoghi all’aperto per mostre, eventi culturali, musica, dotato anche di luoghi al chiuso e all’aperto per il ristoro”. Che sia proprio questo mantra culturale, che un po’ tutti i soggetti, pubblici e privati, mettono nei buoni propositi, a portare un po’ sfiga? O forse osando un po’ di più si permetterebbe anche all’indotto di vivere e prosperare come stenta a fare? Non mancano certo locali per la ristorazione a Pisa, la differenza potrebbe farla una valorizzazione inedita della struttura che c’è, facendo scelte un minimo coraggiose.

Nel frattempo Pisa, città delle opportunità sprecate, si gode il suo bel viale. Per fortuna ci sono gli alberi, per fortuna ci sono gli uccelli che cinguettano gratis. Per fortuna c’è Sant’Ubaldo; lui che era anche esorcista, magari osa farci qualcosa.

Un’Atlantide con giardino

A pochi passi da Pisa il Mumu di Lorenzo Garzella è un’isola multimediale programmaticamente votata al dialogo e alla valorizzazione del territorio

Mumu è il nome di un continente perduto. È il luogo in cui nacque e crebbe una civiltà progredita e multiculturale; un territorio ricco di vegetazione, fiumi, laghi e grandi animali. Miti vogliono che tanto tanto tempo fa nell’oceano Pacifico sorgesse questo continente unico, formato dall’arcipelago hawaiano, l’isola di Pasqua e da molte altre isole vicine. Tanto tanto tempo fa a Mumu comparvero i primi uomini e lì fondarono la civiltà madre. Leggende, documenti, iscrizioni e simboli scoperti ai quattro angoli del pianeta parlano di questa antica, mitica terra, cantata nei secoli fino ad oggi, in roman zi, racconti, fumetti, film, canzoni. Mumu nel 2023 a San Martino Ulmiano (meno di cinque chilometri da Pisa) è un continente inventato; uno spazio multimediale inaugurato un paio di mesi fa. Vuole essere in linea con quella polifonica e polimorfa terra del mito, una scatola magica, una casa dai mille colori, pronta a ospitare racconti, filmati, opere d’arte, performance teatrali; a diventare set foto/cinematografico, residenza per artisti, luogo di formazione. Vuole essere anche e soprattutto luogo di un’identità ritrovata, spazio di ricordi condivisi e tesorizzati del territorio e dei cittadini che lo abitano e lo hanno abitato. Mumu nasce per essere la casa dell’Acquario della Memoria, associazione pisana guidata da Lorenzo Garzella, regista e documentarista che negli anni ha fatto del racconto multimediale del territorio una delle sue mission primarie, riuscendo a coinvolgere tantissimi cittadini nelle sue plurime e originali iniziative: dalla cine-bicicletta al videomapping, fino ai tour di walking cinema sulle mura della città.

Mumu è nato perché non c’era niente che gli assomigliasse.

Invece di cercare il riconoscimento del tanto lavoro fatto nella richiesta di affido di uno dei tanti spazi presenti in città ed inutilizzati, Lorenzo Garzella ha deciso di fare da solo; ha investito tutti i suoi risparmi e l’eredità avuta dal padre in questo sogno da condividere con la comunità, sia in maniera

immediatamente propositiva (un cartellone di iniziative che spaziano dalle mostre al ballo, alle performance teatrali), che nel suo essere disponibile per iniziative estemporanee dei singoli (lo si può anche affittare). Un luogo di incontro fisiologicamente pensato per la convivialità. Sì perché quando si usa “casa” per definire Mumu, non lo si fa usando il termine in un’accezione virgolettata, ma in senso quasi letterale: quando si entra in Mumu sul lato sinistro ci accoglie una cucina con tanto di dispensa, frigorifero, forno, microonde, e al piano di sopra c’è una camera per gli ospiti con bagno.

Una concezione di spazio multimediale così nella zona di Pisa non c’era; forse al suo inizio il MixArt di via Bovio poteva andare in una direzione analoga, ma poi è andata com’è andata… Cosciente della fragilità dei luoghi dediti alla cultura, Garzella ha chiaro quanto la progettazione debba includere immediatamente il pensiero della sopravvivenza, forse anche perché il capitale è prevalentemente il suo. Non sarà un posto con cui fare i soldi, ma dove proteggere il lavoro e i lavoratori che sono determinanti per la sua continuità. In questo è facilitato da anni di lavoro nel settore cinematografico e documentaristico (la gestione della sua casa di produzione Nanof l’ha impratichito non poco nella ricerca di fondi) e da un collettivo, totalmente al femminile, con cui condivide quest’ultima impresa: Serena Tonelli, Veronica Cardelli, Sofia Davila e Giulia Solano.

Centomila euro per l’acquisto di un capannone in disfacimento, più del doppio il capitale aggiunto per portarlo a funzionamento, i soldi investiti. Un ecobonus che gli restituirà in dieci anni il 65% delle spese vive sostenute e un bando vinto di 50mila per l’imprenditoria femminile, i fondi in entrata. Il territorio si arricchisce così di un’iniziativa di notevole impatto politico nel senso più puro del termine. Un concetto di spazio condiviso che riceve e riceverà materiali della comunità, per la comunità, nella convinzione che il pensiero del futuro abbia bisogno di un posto dove dibattere, raccontare e conservare il proprio passato (da anni Garzella tesorizza filmini super8 che magari teniamo in soffitta e non sappiamo più neanche cosa contengono perché non abbiamo i mezzi per

guardarli). Un passato non semplicemente da celebrare quindi, ma da masticare, riassaporare assieme perché sia base di partenza identitaria per le prossime generazioni. L’inaugurazione di una casa come questa sviluppa e dà corpo a una preziosa sensibilità mostrata e ribadita in tanti anni di attività. In questo Mumu fa differenza e se ne dovrebbe tener conto, invece non è per niente così: «Una persona che compra una casa che casca a pezzi, ci infila tutti i suoi risparmi e ne fa una realtà con i cappotti termici, i pannelli solari, per fare pezzi di cultura locale e racconti condivisi col territorio, non ha nessuna facilitazione rispetto a usi più commerciali; tutta la macchina comunale, dai dirigenti ai funzionari, che magari sono gentilissimi e a parole ti dicono di apprezzare la tua iniziativa, non avendo strumenti che individuano la tua particolarità, finiscono ugualmente per massacrarti», ci racconta Garzella ridacchiando, e riferendoci di come uno scarico della cucina, a norma l’anno prima, non lo sia più nel 2023 bloccando così il permesso che permette di cucinare per i soci; ed è solo un esempio delle mille complicazioni che un luogo speciale come Mumu si trova ad affrontare. Nota positiva: Mumu allunga la città in direzione Lucca; ha in faccia i Monti Pisani e un grande giardino con piscina in grado di ospitare quasi 200 spettatori. «A me, tradizionalmente topo di città, occuparmi di questa cosa mi fa sentire un po’ un cowboy; devo occuparmi di cose pratiche, di riparazioni e gestione materiale dello spazio; una prospettiva a cui non sono assolutamente abituato…». Per il momento a Mumu ci si arriva solo con i mezzi privati e il posto non è sufficientemente segnalato. Lorenzo Garzella si è dimenticato di invitare le autorità all’inaugurazione e pur comprendendo la sua programmatica “slealtà dell’intellettuale” nei confronti della classe politica per paura di dipenderne, mi verrebbe da sperare che un’operazione profondamente politica e dialogante come la sua stabilisca un processo di comunicazione anche con chi è chiamato a gestire la comunità. È assolutamente raccomandabile che quest’Atlantide recuperata alla cultura resti un’isola, ma non troppo isolata.

Perché celebrarsi esplorando la noia

Uno: per giocare ad armi pari con i lettori (e vincere)
All’inizio degli anni Duemila Fulvio Pierangelini, all’epoca uno degli chef più quotati al mondo, inserì nel menù del suo ristorante di San Vincenzo (Livorno), il “Gambero Rosso”, gli spaghetti al pomodoro. Sosteneva che un cuoco, per mostrare il proprio valore, debba giocare ad armi pari con i suoi clienti, trasformando un piatto eseguibile da tutti in un capolavoro. Ecco perché nel numero che celebra i nostri dieci anni di pubblicazione abbiamo scelto di esplorare la “noia cittadina”. Per porre in massimo risalto quello che, ad oggi, riteniamo il carattere più nobile della linea di Seconda Cronaca: stimolare la curiosità dei lettori a partire da “ingredienti” della vita urbana accessibili a chiunque e incapaci, in apparenza, di stupire. Tramutare il tedio in notizia, a nostro avviso, è una virtù basilare per dei giornalisti di provincia: la realtà pisana, in fondo, è un susseguirsi di vicende ordinarie. Le storie raccontate in questa edizione, pertanto, le abbiamo scoperte indagando la routine di un anonimo pensionato, la solita Aurelia o la bacheca di un bar assai frequentato. Contesti in cui voi, lettori, non avreste colto un granché, per noi sono stati fonte di sorprese. Nessuno si offenda, è giusto così: una copia di Seconda Cronaca, altrimenti, non costerebbe quattro euro. (Sandro Noto)

Due: per cogliere notizie “negli abissi del nostro esserci” (elogio della noia) Avvertiamo la necessità di togliere alla noia la sua accezione sbrigativamente negativa. Rivendichiamo la noia come un momento base dell’atto conoscitivo, come elemento nobile di un certo giornalismo. Ora come non mai apprezziamo lo stare in ascolto del mondo senza cedere alla fretta del distrarci per forza, nell’automatismo ormai irrefrenabile e schiavizzante, di correre al primo suono dello smartphone, a visualizzare la breve, brevissima news di un post fornito in un social in cui abbiamo già scelto di chi ascoltare la voce, di chi rimasticare con gioia il già condiviso. Quando “ci si annoia” (passando addirittura all’impersonale) entriamo in uno stato particolare, “una nebbia silenziosa, si raccoglie negli abissi del nostro esserci, accomuna uomini e cose, noi stessi con tutto ciò che è intorno a noi in una singolare indifferenza. È questa la noia che rivela l’esistente nella sua totalità”, dice Heiddeger. Questa nostra valorizzazione della noia consente di guardare un elemento, una situazione, tradizionalmente definito “annoiante”, un po’ più in profondità. È possibile allora portare alla luce il fenomeno che è, partendo dall’altro assunto base che è nostra caratteristica di umani essere dei fenomeni, fenomeni unici e irripetibili. La noia ci aiuta così a svelare ciò che era invisibile a un primo impatto anche ai nostri occhi e porgerlo ai tanti curiosi, solo un pochino più distratti, perché sistematicamente in fuga dalla noia. (Franco Farina)

Pisa in vendita

Guglielmo De Stasio, veneziano, ha 57 anni, è docente di violino al conservatorio di Bologna; è konzertmeister dell’Orchestra Antonio Vivaldi di Venezia e direttore artistico di un paio di festival in Sardegna. Al suo fianco siede Maurizio Vassallo, piombinese, anni 65, un passato da geometra, ora anima imprenditoriale e amministrativa. Entrambi durante l’intervista si prodigano a dichiarare come l’acquisizione da parte della loro Gds Arts Management della gestione del Teatro Rossi, uno degli edifici storici di maggior pregio della nostra città, non sia certo fatta con intenti di lucro: i circa 6 milioni di euro previsti per i primi lavori (inseriti nel loro business plan) e i 2mila di affitto mensile che si sono impegnati a pagare al demanio per 30 anni, rendono evidente come l’affare non sia proprio un Affare. Il loro è più un rinnovato mecenatismo. Vassallo mi cita Della Valle, a proposito del Colosseo, e dichiara che lui e una cordata di imprenditori stanno procedendo all’acquisizione/gestione di altri edifici storici della Toscana. “La Toscana è un brand” – specifica – e quindi sarebbero le operazioni che questi luoghi veicoleranno nel loro tornare a vivere, la parte più consistente e articolata dell’operazione. Parlano di guardare alla dismissione del palazzo di fronte al teatro, dove ora sta l’intendenza di Finanza, con interesse, come possibile futuro albergo, chissà. Perché la cosa certa è che Pisa non ha sviluppato un’ospitalità adeguata alle proprie potenzialità e l’Arte deve avere intorno a sé un sistema strutturato per poter funzionare ed essere esaltata. Guglielmo De Stasio ripete come un mantra che il loro teatro sarà “un teatro inclusivo e non esclusivo”; un teatro pronto a ospitare artisti di fama mondiale, ma anche a ricevere le proposte dei cittadini, certo passate prima al suo vaglio “qualità” (gli si può telefonare per prendere un appuntamento; lui promette che ascolterà tutti); ma che soprattutto il primo intento dell’operazione è quello di far diventare il Teatro Rossi un palcoscenico per giovani talenti; quei giovani talenti che lui conosce o ha direttamente formato nei tanti anni di insegnamento e che hanno poche, pochissime occasioni per svilupparsi. Tralasciando che De Stasio promette un restauro filologico che decuplicherebbe i costi e farebbe vecchio e ingessato un teatro “nuovo”, a loro non possiamo che augurare un buon lavoro, nell’interesse di tutti. Come facevano i nostri antenati in epoca medievale, quando per l’incapacità di fare da soli potevano solo augurarsi che il Signore di turno venuto a comandare/colonizzare il borgo fosse particolarmente illuminato, sembra che anche a noi oggi tocchi inevitabilmente fare lo stesso: far gestire il patrimonio pubblico dal privato, dato che le nostre amministrazioni, comunali e regionali, non sono riuscite a trovare negli anni un modo per gestire e valorizzare un bene tanto prezioso. Finalmente ora quelle istituzioni possono tirare un sospiro di sollievo, il demanio ha scelto e a qualcun altro toccherà quella patata bollente; nella speranza che i cittadini dimentichino o non conoscano mai l’esistenza di altre possibilità, ovvero la possibilità di un dialogo forte fra le istituzioni, con il territorio, lo sviluppo di processi partecipati che partono dal coinvolgimento della città tutta, la ricerca di fondi europei; uscendo dal semplice pensiero che il Comune non ha nell’immediato i soldi in tasca per gestire direttamente il bene. Il Comune ha il dovere di studiare e perseguire i processi possibili. Certo di questa seconda possibilità non si dimenticheranno quelli del T.R.A. (Teatro Rossi Aperto) che per anni hanno riempito di attività quel bellissimo luogo, mettendo nell’impresa cuore, dedizione e competenza. Hanno cercato disperatamente di stare a un tavolo inter-istituzionale con Regione, Comune, Soprintendenza, Demanio che magari riconoscesse loro qualcosa per gli 8 anni di esperienza, ma invano.

La politica raramente si sporca le mani a promuovere la cultura e l’arte, specialmente quando il grado di complessità si fa troppo alto; meno che meno quella locale (“Io questo teatro in casa non me lo prendo”, pare sia stata l’affermazione dell’ex sindaco Filippeschi in merito). Ma è possibile che una città come Pisa che ha il suo baricentro nella cultura, sia così incapace o disinteressata alla gestione del suo patrimonio? Perché pur ammettendo che il caso del Teatro Rossi potesse risultare cosa troppo complessa per le competenze medie di un amministratore medio, la partita è tutt’altro che finita dato che a Pisa rimangono chiusi o non utilizzati o sottoutilizzati altri bellissimi spazi di cui nessuno sa additarci il destino. Il Comune ha recentemente stanziato 1,4 milioni di euro per i lavori di ristrutturazione per la splendida chiesa di San Zeno (tetto pericolante) e 900mila (fondi del PNRR) per la chiesa di Sant’Antonio in Qualquonia, vicinissima alla chiesa di San Paolo a Ripa d’Arno; ma si ignora la loro destinazione d’uso. Di altri beni preziosi sono stati addirittura murati gli accessi, vedasi la Limonaia in vicolo del Ruschi, tra via San Francesco e via San Lorenzo. Da quello stabile lì, dove per anni si sono succedute tante attività (e come da copione alla fine un’occupazione), la vita è stata di fatto espulsa. Solo gli alberi di agrumi, che ne caratterizzano il giardino, testimoniano che la vita potrebbe esserci ancora facendo capolino con i loro rami carichi di frutti, oltre i sei metri di muro che ne perimetrano la parte esterna. Lo sappiamo che la Limonaia è della fantasmatica Provincia, ma il silenzio che circonda il suo destino è assordante. Le amministrazioni non dovrebbero non avere un pensiero in merito. Cosa fare del nostro Patrimonio (che non riguarda solo i tesori di prima qualità, ma tantissime altre gioie inutilizzate) dovrebbe essere un pensiero vivo e costante per chi questo tesoro amministra e un gioioso pensiero anche per i cittadini che di quel patrimonio sono costituzionalmente i proprietari. Un patrimonio così ampio che negli ultimi anni siamo passati da avere tante persone senza spazi ad avere tanti spazi senza persone. Siamo convinti che una buona pratica giornalistica consista nel puntare i riflettori su quelle problematiche complesse ma importanti che altrimenti tendono a farsi invisibili. E poi se appare psicologicamente comprensibile cercare di dimenticarsi dei propri debiti, quale più strana follia è quella di dimenticarsi dei propri beni? È con questo spirito che abbiamo dedicato l’indagine di questo numero ai tesori dimenticati di Pisa.

Ma i cittadini sognano pecore elettriche?

Proprio un bel regalo di Natale! Finalmente la città si riappropria dell’ex caserma Artale. L’area, incorniciata da via Derna, via Roma, via Savi e via Nicola Pisano, a due passi da Piazza dei Miracoli, contiene la seconda piazza più grande della città, e torna dalla prossima settimana a essere uno spazio pubblico offerto alla cittadinanza. Dopo anni di impenetrabile e infrequentabile mistero, come caratteristico di tutte le aree militari, lo spazio (ora in attesa di una nuova denominazione), una volta protetto da alte mura e cancelli, diventa per la prima volta poroso e permeabile. Non più chiuso a riccio, piccola cisti monadica posta in uno dei punti più vitali della città, la struttura sa farsi ora tessuto aperto e frequentabile in grado di dialogare con ciò che la circonda. In questo senso la caserma, non più caserma, abbellita dai nuovi cinquanta alberi messi a dimora nella nuova configurazione, sembra rimare col vicino Orto Botanico, offrendosi come nuovo piccolo polmone della città, area di sosta e respiro nel percorso che porta il cittadino o il visitatore pedone dal fuori verso il centro, in una linea che lo congiunge con la preziosa risistemazione dell’Ospedale di Santa Chiara e lo instrada all’entrata della piazza più prestigiosa, in un percorso armonico che sa elevare l’accoglienza a sistema, migliorando anche la qualità di vita dei cittadini.

Nell’area sarà inaugurato uno studentato giovanile, gestito in accordo con il DSU, ricavato dal vecchio complesso delle camerate dei militari e un gruppo di appartamenti di edilizia convenzionata per le fasce più deboli, un intervento dal forte carattere sociale che contribuirà ad aumentare i residenti del centro. Dall’altra parte della piazza l’albergo a 5 stelle, che è stato ricavato dalla palazzina che fu degli ufficiali, offre il secondo lato di questa medaglia che evidenzia nelle due facce le due mission principali della città, quella della formazione universitaria e quella turistica.

Il Teatro del Fante, dato l’ormai completato recupero del Teatro Rossi, in quanto terzo teatro della città è stato ripensato come spazio multimediale che grazie alla sua modularità strutturale interna, sarà in grado di ospitare installazioni, mostre, concerti, musica e teatro, dando vita finalmente a uno spazio multimediale, vetrina di quell’arte contemporanea che a Pisa non ha mai avuto un luogo deputato. Altri volumi non tutelati da vincoli sono stati invece abbattuti, nella piena consapevolezza ambientale di come anche la restituzione di suolo sia parte integrante di una progettazione urbanistica che sappia guardare al futuro.

Quella che avete letto non è una fake news, ma un sogno, un sogno necessario; perché una città sana deve saper sognare e progettare il proprio futuro oltre che celebrare il proprio passato. Parte del sogno è preso anche dal futuro espresso dall’Amministrazione Comunale che nel 2007, quando tutta questa storia delle dismissioni delle aree militari da parte della Difesa prese corpo, aveva cominciato a fantasticare su cosa poteva succedere alla città in seguito al recupero delle caserme. Ma le cose ora potrebbero andare in maniera parecchio differente. L’intera area dell’ex caserma Artale (18.000 mq) è stata ceduta dal Ministero della Difesa al Demanio, da questo alla Cassa Depositi e Prestiti, per circa 8 milioni di euro e infine acquistata a un prezzo da svendita, 4 milioni, dalla San Ranieri Srl, un soggetto privato che risponde all’impresa AD di Firenze che ha presentato il proprio progetto di risistemazione dell’area: in questo lo studentato non è concordato con il DSU, ma sarà semplicemente in linea con le leggi vigenti in fatto di locazione, niente case per le fasce deboli, ma ventiquattro unità immobiliari definite in maniera generica, tranne specificare la presenza di “box auto”. Spunta come un fungo “un parcheggio pubblico multipiano fuori terra per 57 auto” e ci sarà un non meglio definito “albergo” di cui per il momento non si osa dichiarare le stelle. Il teatro non sarà destinato a divenire un centro d’arte contemporanea multimediale, ma un fin troppo spazioso minimarket. Ricavo per il Comune di tutta l’operazione 600.000 euro. È inquietante pensare quanto un bene pubblico prezioso come l’ex caserma Artale possa essere semiregalato a dei privati che ovviamente si muovono dietro la logica del loro profitto. Un processo come questo parte dalla convinzione che l’Amministrazione non ha le forze per amministrare il bene, allora si cerca la quadra nella messa in linea degli interessi del privato con quelli del pubblico, stilando delle indicazioni che vorrebbero essere vincolanti, ma che per il momento, e non solo nel caso specifico, sembrano rischiare di non avere la forza per imporsi. Il problema è che nella ristrutturazione della caserma Artale e dell’adiacente ospedale di Santa Chiara di cui troppo poco si parla (se ne immaginava il completo trasloco a Cisanello entro il 2012) si gioca una delle sfide più importanti per il futuro di Pisa. È inquietante pensare che il dibattito e l’attenzione che ora si sta progressivamente focalizzando sulla questione non ci sarebbero senza l’ostinazione e l’impegno con cui il consigliere comunale Francesco Auletta di “Una città in comune” è riuscito a far venire fuori dai cassetti della burocrazia il progetto che la San Ranieri aveva presentato e portarlo all’attenzione della città. Ne sono derivate assemblee cittadine con consequenziali scambi di idee, prime iniziative e silenziose preghiere nella speranza che il progetto fosse sottoposto a Vas (Valutazione ambientale strategica) e la messa in opera dei lavori ritardata. La cosa è avvenuta dato che la relazione redatta dal Nucleo comunale per le valutazioni ambientali ha sancito che il Piano di recupero della caserma Artale necessita di un maggiore approfondimento delle criticità, “non essendo possibile escludere impatti significativi/negativi sull’ambiente, derivanti dall’attuazione dei relativi interventi”. Le richieste di modifiche porteranno a implementazioni e cambiamenti del Piano, che in una fase successiva prevedranno un momento di consultazione pubblica della durata di 45 giorni in cui chiunque potrà prendere visione del nuovo Piano e presentare proprie osservazioni in forma scritta o elettronica, anche fornendo nuovi e ulteriori elementi conoscitivi e valutabili. E ancora: un appello a sostegno di un ripensamento sui destini dell’area ha trovato tra i primi firmatari studiosi del calibro di Salvatore Settis, Adriano Prosperi, Piero Bevilacqua; in questo, tra le tante richieste, citando il progetto del britannico Chipperfield, vincitore del concorso internazionale bandito quindici anni fa per la “Riqualificazione urbanistica del complesso ospedaliero universitario di Santa Chiara”, si torna ad invocare “la sostenibilità ambientale e sociale e la centralità dell’interesse pubblico, mettendo al centro possibili sinergie con l’Università, il Diritto allo Studio ed in stretto rapporto con l’area del Santa Chiara”. Ma non solo: rumors di palazzo dell’ultima ora dicono che la commissione urbanistica abbia trovato un vizio di forma e che il Piano verrà totalmente invalidato facendo ripartire tutto da zero. Il pericolo di una progettazione semplicemente lucrosa di un bene tanto prezioso e strategico appare per il momento scampato; ma il vero pericolo rimane l’assenza di progetto strutturato che comprenda tutta l’area prossima al Duomo. La mancanza di un pensiero più ampio e di ampio respiro che tracci un disegno armonico e lungimirante evitando quello che potrebbe essere uno sfregio permanente poi difficile se non impossibile da risanare. Un pensiero nuovo che parta anche dal confronto e che chiami a una partecipazione della cittadinanza e di tutti i soggetti interessati. Non può essere insomma sufficiente dire “no” ad alcune proposte, quanto cominciare a immaginare con forza il “come” dello sviluppo cittadino. Una vera rigenerazione urbana partecipata potrebbe essere utile per tutti, per chi amministra, per chi vive la città e per chi è chiamato a risistemarla. I cittadini non dovrebbero avere difficoltà a informarsi, ma essere chiamati a partecipare. I comitati cittadini dovrebbero riempirsi di idee e partecipazione con la stessa abnegazione che è stato possibile vedere alle prime assemblee alla chiesa dei Valdesi sul futuro dell’Artale: persone con faldoni di fogli e documenti, di appunti e possibili risoluzioni. L’affaire Artale potrebbe diventare la prima palestra in cui si coltiva una partecipazione che sa farsi illuminata anche perché perseguita e stimolata. Un momento in cui si coltivano idee talmente nuove e coraggiose da apparire sogni. In un momento in cui la politica non ha il coraggio di programmare a lungo termine, cercare un pensiero che non si consuma nell’immediato ci sembra quanto meno auspicabile.

Il PD pisano: chi l’ha visto?

Dopo le ultime elezioni ce lo dovevamo aspettare, perdere dopo tanti, tanti anni, non è un colpo facile da assorbire per nessuno; i pochi amici rimasti lo ricordano baldanzoso con i suoi 20.551 voti, quando, nel 2008, con il 39,2 % aveva conteso, vincendo poi al ballottaggio, la governance della città a Patrizia Tangheroni; e quando ancora cinque anni dopo, seppure i voti fossero scesi a 13.665, sembrava destinato a far faville… «Certo, non era più l’epoca di Fontanelli, quando le coalizioni di sinistra arrivavano al 57,7% strapazzando tutti al primo turno – lacrimano i miei interlocutori – Ma nessuno poteva presagire i 9.351 consensi dell’ultima tornata elettorale che hanno invitato la destra a gestire la città». «Dovevamo stargli più vicini».

Per capire dove cercarlo ho chiesto aiuto a vecchi amici e conoscenti che con diversi, a volte opposti sentimenti, hanno avuto frequentazioni intense con il PD pisano. Francesco Auletta, capogruppo di Una città in comune, alla sua seconda legislatura di opposizione, mi dice che se lo ricorda in forma nella battaglia per la moschea, anche se poi non ha concluso per tempo i decreti necessari alla sua attuazione, agevolando chi voleva ritardarne e di fatto impedirne la realizzazione. Mi dice che spera di vederlo più puntuale sulla vicenda della base di Coltano, che addirittura ha fatto finta di ignorare, cosa da lui e dai suoi poi smentita; e che gli piacerebbe vederlo farsi vivo sul tema della pace smettendo di assecondare l’aumento delle spese militari e l’invio di armi, che la pace è un tema etico e identitario, uno spartiacque per un pensiero che ancora possa chiamarsi di sinistra. Così come dovrebbe avere un’attenzione maggiore al rapporto fra città e cambiamento climatico, problematizzare per esempio il consumo di suolo, che è invece in aumento: «Si costruiscono residenze malgrado i 4.000 alloggi sfitti»; e la capacità di gestire in maniera frontale le conflittualità sociali, senza ricorrere costantemente alla militarizzazione del territorio. E ancora le problematiche del lavoro, da mettere sotto tutela con patti concordati con gli attori coinvolti… Forse tutti orizzonti lontani perché il nostro scomparso ci si sia avventurato.

Decido di rivolgermi agli avversari, che a volte, anche più degli amici, colgono mosse e segnali. Riccardo Buscemi, capogruppo di Forza Italia, dall’alto delle sue cinque legislature in Consiglio comunale e con l’aria da saggio che gli conferisce la lunga e folta barba, saprà senz’altro illuminarmi. Ma anche lui dice di averne perso in parte le tracce; sparito un po’ dalle periferie (ha lasciato anche meno che “a mezzo” il progetto delle case popolari di Sant’Ermete), spera addirittura di ritrovarlo in battaglie condivisibili; battaglie che una volta l’avrebbero riattivato, come quella proposta da lui stesso a favore di Fulgenzio Obiang Esono, ingegnere pisano originario della Guinea Equatoriale, detenuto in un carcere di quello stato, perché accusato di aver partecipato a un tentativo di colpo di stato nel 2017 e condannato a 58 anni e 10 mesi di reclusione, mentre in realtà Fulgenzio era a Pisa. Oppositore dichiarato del regime, poi sparito in circostanze misteriose, di lui non si sa più niente da tre anni. Ma anche su questo il PD latita. Forse il PD è sparito perché cerca di trovare delle buone risposte. «È successo anche a noi – mi suggerisce – Quando non dai delle risposte chiare, i cittadini si accorgono che non sei un’alternativa valida». Quindi vista l’attuale situazione gli consiglia di stare all’opposizione per un bel po’ – sorride sornione – Per ritrovare un’identità sia fattuale che progettuale.

Un po’ sulla stessa linea Maurizio Nerini, consigliere comunale di Fratelli d’Italia alla seconda legislatura, che aspetta la ricomparsa del PD in primis su una modalità di opposizione dialogata e non sistematicamente oppositiva. «Paradossalmente è più facile governare quando sei stato per anni all’opposizione a guardare governare gli altri». E poi mi parla delle sue maggiori preoccupazioni, che sono il rapporto con le persone, la necessità di potenziare l’ascolto cercando di essere fisicamente presenti, perché il cittadino ha bisogno del contatto diretto. Mi parla di riappropriazione degli spazi comunali, perché una manutenzione ordinaria ha un costo, la manutenzione straordinaria uno molto più elevato; e mi parla di mobilità dolce e di tram per incrementare la vivibilità del centro urbano… E mi viene da pensare che forse molti degli spazi in cui cercare il PD sono già occupati, e che questo ne complica la ricerca.

Poi, finalmente, incontro un grande ex amico dello scomparso: Paolo Fontanelli. Due legislature da sindaco e due da deputato per il PD. Uscito dal partito, attualmente in Liberi e Uguali. Lui lo vorrebbe trovare là dove si concretizza un’idea di città che cresce in qualità urbana e in qualità della vita; e mi disegna le linee di forza di questo progetto che parte dalla valorizzazione e messa a sistema di ciò che la città offre di più prezioso: un sistema museale che corre sui lungarni e sarebbe altro polo rispetto alla Torre; un itinerario che parte dal Museo delle Navi Antiche passando per quello di Palazzo Reale, congiungendosi con San Matteo e poi, attraversato l’Arno, con Palazzo Lanfranchi e Palazzo Blu. Disegna anche, a partire dalla riqualificazione della linea caserma “Artale”-Santa Chiara, una via pedonale fino a Piazza dei Miracoli. Questo il perno di un cambiamento che implica tutti gli altri: riportare i lungarni al loro ruolo originale di zona di passeggio, togliendo il traffico urbano; definizione della circonvallazione esterna, con situazioni di sosta per arrivare verso il centro, distribuite secondo un modello radiale equilibrato. L’obiettivo dovrebbe essere «passare dal turismo dei due pullman a quello dei due giorni». E poi mi parla del necessario potenziamento delle linee di entrata e di uscita dalla città, dalle strade alle linee ferroviarie veloci verso Firenze… In perfetta simmetria avrei voluto chiedere due dritte anche al nostro primo cittadino. Anche lui conosce benissimo il nostro eclissato, ma ha preferito “mantenere un profilo istituzionale”; che credo voglia dire: “Sono il sindaco di tutti i pisani e non è corretto fare ironia su una forza politica della città”. Ma in fondo l’idea di questa mia ricerca è solo constatare se esistono o esisteranno due diverse idee per la città, che in un sano processo democratico possano contrapporsi e produrre la migliore sintesi possibile per il bene della nostra città. Idee nitide, comunicabili e magari anche un po’ più partecipabili di quanto non sia accaduto in questi ultimi anni.

Che fine ha fatto la stella Michelin?

L’ultima in centro nel 1995. E non è (solo) un problema di cuochi

La notizia di poche settimane fa, l’apertura a Terricciola di un resort con annesso ristorante da parte dello chef stellato Antonino Cannavacciuolo, nasconde un sapore amaro. In quei giorni la stampa locale scriveva di Pisa e di stelle Michelin, ma ciò non stava avvenendo perché un nostro ristorante era emerso tra i migliori. Un grande cuoco dava inizio al suo progetto pisano, un’ottima notizia. Ma ci ha ricordato che le stelle Michelin esistono ancora e che da Pisa sono sparite da decenni. Nel 2022 la guida francese ne ha assegnate 40 alla Toscana e noi non ci siamo, punto. Tristezza profonda, sgomento. Nella nostra storia, di stelle ne abbiamo avute 33 e per due volte, alla fine dei ‘70 e all’inizio dei ‘90, ci sono stati due ristoranti stellati in città. Negli anni ‘80 eravamo protagonisti della cucina italiana con Sergio Lorenzi e il suo “Sergio” sul Lungarno Pacinotti, 18 stelle Michelin consecutive dal 1978 al 1995, anno in cui queste abbandonano definitivamente il centro cittadino. Dà una piacevole sensazione usare il plurale in questo contesto, dire “noi” eravamo un riferimento della cucina nazionale, lo possiamo affermare con orgoglio. Allo stesso modo dovremmo constatare che siamo “noi”, tutti come comunità, a uscirne ammaccati quando la stella manca, e da così tanto tempo, dal centro di Pisa. E non per la stella in sé, ma per la stella come sintomo di un contesto di creatività e menti ingegnose. Quel contesto che da qualche anno pare soffra a emergere. I numeri, gloriosi del passato e assenti nel presente, mostrano due ere ancora più distanti se contestualizzati. Non che diventare stellati oggi sia facile, ma gli anni ‘80 erano un altro mondo, senza Internet, senza chef celebrità e con molto meno know-how in Italia su cosa volesse dire fare alta ristorazione. I cuochi pisani di allora erano pionieri, ma di un concetto assai confuso per il pubblico italiano, una cosa considerata per ricchi e vista con scetticismo, specialmente a Pisa, città popolare e studentesca. Due dati aiutano a calibrare ieri con oggi: solo nel 1986, mentre Lorenzi festeggia la sua nona stella Michelin, arrivano le prime “3 Stelle” italiane. Sono passati 30 anni da quando la guida Michelin ha esteso la copertura delle sue revisioni all’Italia. Se le aggiudica Gualtiero Marchesi, che diventerà un’istituzione. Oggi i tristellati in Italia sono 11. Secondo dato: lo stesso termine “stellato”, se riferito alla ristorazione, non esisteva nella lingua italiana. Il vocabolario Treccani lo ha aggiunto tra i neologismi soltanto nel 2008.

Alla macro analisi si sommano gli effetti micro, quelli locali, specifici del territorio. Per studiarne l’andamento, la Confesercenti di Pisa ha ideato oltre quindici anni fa l’Osservatorio sul turismo enogastronomico. Compito dei gruppi di lavoro che lo compongono è realizzare indagini a campione per comprendere le abitudini degli utenti. Gli aspetti analizzati dalla Commissione per la valutazione dei ristoranti di Pisa variano ogni anno. Due dei risultati più interessanti si trovano nel report del 2015. Il primo: quando un livornese o un lucchese decide di venire a cena a Pisa lo fa, oltre che per ovvie ragioni di vicinanza, spinto dalla bellezza della città o per motivi di lavoro nel 25% dei casi e solo nel 4% per i ristoranti. Pisa peraltro si colloca quarta dopo Livorno, Lucca e Viareggio tra le destinazioni scelte per cena tra gli abitanti della zona. Il secondo numero è ancora più inquietante: se si tratta di cenare fuori il 90% dei livornesi rimane a Livorno, il 72.5% dei lucchesi resta a Lucca e solo il 50.4% dei pisani sceglie Pisa. Cioè un pisano su due lascia Pisa se esce per cena. Alessandro Fenu è docente all’Istituto alberghiero “Matteotti” di Pisa, formatore di personale negli hotel e per anni è stato membro della commissione che realizzava questi report: «I dati parlano chiaro: le persone tornano nei ristoranti nel 51% dei casi per come sono stati accolti, non per come hanno mangiato. Quindi Pisa non ha un problema di cucine, ha un problema di accoglienza, di sala». Per Fenu questo è un fatto specifico della città di Pisa che non si riscontra nelle province vicine, è quella sensazione che i pisani considerino tendente al ruffiano chi fa solo il gentile. L’insegnante Fenu non è indulgente con la sua stessa categoria quando dalla sala passiamo ai fornelli: «Sulla cucina la formazione ha la sua grossa fetta di responsabilità. Non siamo più credibili verso gli studenti, le ore di laboratorio sono state decimate e diamo incarichi a docenti a loro volta non formati, con esperienze minime, spesso in realtà mediocri. Nella nostra scuola abbiamo ventunenni neodiplomati che insegnano materie professionali. Una volta in un laboratorio ho visto con i miei occhi un giovane docente fermare la lezione perché non sapeva fare la crema pasticcera». 

L’ultima brigata di successo sul territorio pisano la guidava il garfagnino Luca Landi, chef stellato di “Lunasia”, ristorante dal cuoco interamente concepito. Lunasia è oggi a Viareggio, ospite dell’Hotel Plaza e de Russie, ma è nato a Tirrenia e rimasto per qualche anno nelle strutture del Green park resort. Quando “Lunasia” si guadagna la prima stella Michelin nel 2012, dopo che per due decenni questa era mancata dalla città, il sindaco di Pisa Filippeschi chiama Landi per congratularsi con 5 mesi di ritardo. Discutiamo proprio del rapporto con il territorio quando incontriamo lo chef e i suoi sentimenti sono contrastanti: «Alcuni dei prodotti che amo di più sono pisani, specialmente del Parco. Li uso nei miei piatti, ma non senza difficoltà. Per due chili di ricotta di pecora, che è strepitosa, a volte chiamo il produttore dieci volte. C’è Donatella Baldi a San Rossore che produce miele su una spiaggia, una cosa unica, ma glielo devo vendere io direttamente al ristorante perché trovarlo è impossibile. E i pinoli del Parco, i migliori, sfido chiunque a trovarli in meno di cinque giorni». È deludente. Non tanto per la visibilità che un grande ristorante offre a un piccolo produttore, ma perché l’essenza della cucina è trovare nuove vie per gli ingredienti, anche quelli che riteniamo intoccabili. «Io con il mucco pisano ci faccio una carne fermentata (servita sorprendentemente tra la piccola pasticceria, ndr) che secondo me lo valorizza molto più di una griglia. In Giappone ho lavorato nel ristorante di Seiji Yamamoto (un gigante, il più importante innovatore della cucina giapponese, ndr) che ha preso un ingrediente tradizionale come il katsuobushi, che è pesce fermentato essiccato, e ne ha studiato una versione affumicata con il produttore. Queste interazioni sono vitali. Io adesso, per un lavoro che sto mettendo a punto, ho bisogno di una ricotta più secca, e mi vengono i brividi se penso di discuterne con il produttore». E comunque, prima, bisogna che il produttore risponda al telefono.

Mendicanti di creatività

Il Comune di Pisa pagherà 500 euro il logo che dovrebbe rilanciare i musei cittadini

Un’applicazione del logo vincitore del bando per i Musei Nazionali di Genova. Autori: Dario Pianesi, Alessandro Prepi & Marco Fornasier

27 marzo ore 13:02, sulla chat di Redazione viene condiviso il link a un comunicato stampa che titola: “Cultura: pubblicato il bando per ideare il logo della Rete museale cittadina”. Tra grafici e illustratori si accende l’interesse: ci piace raccontare Pisa con le immagini, l’occasione è imperdibile. Aperto il link e letto il sottotitolo dell’articolo, però, arriva lo sconforto: “Al vincitore un premio di 500 euro. Per partecipare c’è tempo fino alle ore 11 dell’11 aprile”. Nella successiva riunione di Redazione alzo la mano e chiedo questo spazio ai colleghi giornalisti, in via straordinaria. Perché da otto anni sono un grafico di questa testata e di mestiere non scrivo. Ma ci sono cose da dire.

Il bando: sedici giorni per sviluppare il logo di un progetto di cui si discute da più di 10 anni. Perché tanti buoni propositi si stanno risolvendo in un contest degno di un incarico da sagra di paese? Leggendo il comunicato si scopre che la rete museale cittadina, o come è stata ribattezzata Rete PPM – Pisa Percorsi Museali, èun protocollo d’intesa siglato lo scorso ottobre con il quale è stata avviata una collaborazione tra i soggetti che a Pisa si occupano di beni culturali e di spazi espositivi. I soggetti coinvolti nella Rete PPM sono 18. Solo per citarne alcuni si va da Palazzo Blu al San Matteo, passando per la Chiesa di Santa Maria della Spina e il Museo di Anatomia Patologica. Ci sono tutti gli enti pubblici e le fondazioni che a Pisa gestiscono spazi espositivi.

I soggetti coinvolti nella Rete PPM sono 18. Solo per citarne alcuni si va da Palazzo Blu al San Matteo, passando per la Chiesa di Santa Maria della Spina e il Museo di Anatomia Patologica. Ci sono tutti gli enti pubblici e le fondazioni che a Pisa gestiscono spazi espositivi.

È evidente, anche per l’eterogeneità dei soggetti coinvolti, che progettare questo logo richieda uno sforzo di sintesi molto complesso e di conseguenza un’elevata professionalità. Probabilmente il premio del concorso copre giusto i costi di una seria ricerca preliminare, indispensabile per creare un lavoro originale e all’altezza dell’operazione. Operazione fondamentale per una città con una forte vocazione turistica che però si presenta con musei dai risultati molto scadenti in termini di numero di visite.

Nel bando del Comune mancano indicazioni precise che possano orientare i progettisti. Vi si legge: “[il logo] Deve essere in grado di rafforzare la visibilità della Rete Museale valorizzandone le caratteristiche”. Sì, ma quali? Ricercando maggiori informazioni su PPM – Pisa Percorsi Museali scopriamo che l’unica risorsa su cui dovrebbe basarsi chi si cimenta nel contest sono comunicati stampa e dichiarazioni di intenti.

Avere un’identità visiva efficace è un valore riconosciuto, per questo la si costruisce ben oltre il disegno del logo, con un insieme di elementi che concorrono alla riconoscibilità del brand, alla sua personalità. La brand identity si può declinare in una moltitudine di supporti visivi: dal manifesto della mostra al biglietto d’ingresso che ci ritroviamo il giorno dopo in tasca, all’ombrello che abbiamo acquistato nel bookshop perché colti alla sprovvista da un temporale. Se pensiamo all’identità visiva come all’abito con cui un’organizzazione si presenta ai suoi utenti, a Pisa sembra si sia scelto di indossare la prima cosa che si trova aprendo il cassetto.

Tutt’altra ambizione ha avuto la città di Genova nel proporre il concorso per i musei nazionali della città. In questo caso i promotori si sono avvalsi della consulenza dell’Aiap, l’Associazione per il design della comunicazione visiva, che da anni offre supporto alle amministrazioni pubbliche per la stesura dei bandi di gara affinché siano redatti rispettando le linee guida europee.

A Genova, per un bando simile, al vincitore sono stati destinati 14mila euro e a tutti i candidati selezionati è stato riconosciuto un rimborso spese di 1.000 euro

A Genova il bando è stato pubblicato il 13 ottobre 2021 e ha riguardato l’unione di soli due musei nazionali: il Museo di Palazzo Reale e le Gallerie Nazionali di Palazzo Spinola, una situazione ben più semplice rispetto ai 18 musei pisani.

Al vincitore sono stati destinati 14mila euro. Il concorso è stato diviso in due fasi: nella prima sono stati selezionati 5 team tra tutte le candidature ricevute. I partecipanti hanno dovuto dimostrare di avere una comprovata esperienza nel settore e a giudicare i lavori è stata una commissione composta da professionisti della comunicazione visiva. Non era scontato: in molti concorsi analoghi a giudicare ci sono solo i committenti. A tutti i candidati selezionati è stato riconosciuto un rimborso spese di 1.000 euro per proseguire nella seconda fase: la sottomissione delle proposte progettuali. Nel bando genovese è stato elencato il numero di elaborati da consegnare, indicando con precisione il contenuto di ciascuna tavola grafica e i criteri di valutazione sono stati molto dettagliati. I progettisti selezionati hanno quindi partecipato a una riunione per avere informazioni più dettagliate da parte della committenza e hanno potuto dipanare eventuali dubbi prima di iniziare i lavori. Il concorso si è concluso il 4 febbraio 2022, a più di tre mesi dalla pubblicazione del bando.

A Pisa, tra la pubblicazione del bando e la scadenza sono intercorsi 22 giorni. Non è stata fornita alcuna informazione sulla commissione giudicatrice, nemmeno a seguito di nostra formale richiesta. Il premio offerto è 28 volte più contenuto, 500 euro. Il bando è stato aperto a tutta la popolazione maggiorenne, senza individuare un modo per intercettare i professionisti del settore. Forse chi ha indetto il concorso si illude che si possa sostituire l’estro artistico alla progettazione, l’immediatezza del segno spontaneo alla riflessione. E la sensazione è che, non volendo affrontare una spesa congrua per ripagare il lavoro, si sia tentato di accaparrarsi creatività a buon mercato sperando nei grandi numeri, con un bando aperto a chiunque senza selezione preliminare.

La sensazione è che, non volendo affrontare una spesa congrua per ripagare il lavoro, si sia tentato di accaparrarsi creatività a buon mercato sperando nei grandi numeri, con un bando aperto a chiunque senza selezione preliminare.

Se i 18 musei pisani avessero unito le forze per finanziare questo concorso, avrebbero dovuto sborsare la cifra di 27,7€ a museo. Stiamo parlando del costo di meno di 3 biglietti ridotti per la visita alla mostra di Keith Haring appena conclusa a Palazzo Blu.

Nel momento in cui questo testo viene scritto siamo oltre la scadenza del bando. Teoricamente in una delle buste consegnate potrebbe esserci il nuovo capolavoro della grafica degli anni Venti. Questo tuttavia non giustificherebbe la scarsa ambizione che la città ha dimostrato nei confronti di uno dei temi da anni proposto come la svolta per il rilancio del patrimonio culturale cittadino “oltre la Torre”. Disattenzione che diventa disastro se si pensa che nel consorzio è presente anche il Museo della Grafica.


Editoriale pubblicato sul numero 2 – Anno 9

Comunicato stampa del Comune – Pisa percorsi museali

Comunicato stampa che annuncia il concorso: bando per il logo di Pisa Percorsi Museali

Pagina ufficiale del Comune di Pisa con il Bando oggetto dell’articolo

Concorso musei nazionali di Genova – il vincitore

Le linee guida per i concorsi dell’AIAP, l’associazione italiana design della comunicazione visiva

International council of design guide lines

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Di chi sono i muri di Pisa?

È sempre più frequente di questi tempi imbattersi, su giornali e social, in foto di assessori che, armati di idropulitori, posano fieri davanti a muri ridipinti di fresco. Attestano la vittoria contro le scritte sui muri cittadini e trionfalmente affermano di aver restituito decoro alla città contrastandone il degrado. È un’affermazione bipartisan che rimbalza di comune in comune e nella nostra città ingloba anche l’Ateneo, che nella persona di Marco Gesi, prorettore ai rapporti con il territorio, si è schierato a fianco dell’Amministrazione, impegnandosi a pulire i muri dei propri palazzi in nome di «un’azione sinergica che vuole mantenere e restituire una città più civile, più bella, più pulita»; è quindi a fianco dell’assessore all’ambiente Filippo Bedini che ne ha fatto una vera e propria crociata e dell’impresa ama snocciolare cifre afferenti alle risorse investite e ai metri quadri di scritte rimosse. Lo sforzo economico stupisce (nel 2020 un ammontare complessivo di 155.480 euro), come l’uso reiterato dell’aggettivo sostantivato “decoro” usato per etichettare come indiscutibilmente positiva la pratica di cui stiamo parlando. Ma “Decoroso” ha a che fare con il Bello e sappiamo quanto nessun termine sia meno oggettivo dell’aggettivo “bello”. Se nessuno contesta la pulitura di scritte su monumenti di alto valore artistico o di scritte becere o sessiste, per molti muri e altre scritte, per un altro amore per Pisa, per un’altra sua storia, si potrebbero forse fare ragionamenti un pochino più complessi, che inglobano altri punti di vista, foss’altro per amore di dibattito. Perché a “Imbiancato è bello” un’altra parte della città potrebbe obbiettare “Muro pulito = popolo muto”.

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