Amici, compagni, chef
Gli ex di Lotta Continua divenuti ristoratori ci raccontano il perché di una scelta
L’isolamento casalingo imposto dal Covid-19 sta accentuando le smanie culinarie degli italiani. Eppure nel paese dei cuochi un tempo i buongustai erano un’audace nicchia. I primi innovatori della gastronomia pisana furono degli ex di Lotta Continua, divenuti ristoratori in epoca post-sessantottina. Questo articolo di Sandra Burchi, pubblicato ad aprile 2014 nel terzo numero di Seconda Cronaca, ne racconta la storia.
di Sandra Burchi, foto di Carlo Gattai
Per anni Carlo Silvestrini ha gestito la Vineria di piazza delle Vettovaglie. Quando gli chiedo di incontrarci per parlare di loro, militanti passati alle cucine, mi lancia un’occhiata diffidente, però accetta. Ci vediamo al solito bar, della solita piazza Garibaldi. «Questa era la nostra piazza». Inizia con quel parlare in “noi” il suo racconto, un noi che ritroverò. «Noi s’era tutti presi dal cibo, ci piaceva mangiare cose buone. E bere cose buone». Carlo cucina da sempre, l’ha fatto da bambino, da ragazzo, da militante, e ha continuato per mestiere. «Quando ho avuto i soldi per pensare all’acquisto di una casa, ho deciso che in realtà volevo un ristorante. A noi non ci interessava la casa, ci interessava “noi”, cosa si faceva, come era il giorno». È così che nel ’78 lascia l’impiego di portiere al Santa Chiara per aprire Lo schiaccianoci. Sono trascorsi dieci anni da quel “pieno di politica” conosciuto dalla sua generazione, e due dallo scioglimento di Lotta Continua. C’è stato il tempo di riassestarsi, di fare nuovi progetti.
Altri ex compagni sono al lavoro per aprire L’osteria del violino, in una traversa di via San Martino. Sono Giovanni Bonfanti, Alfonso Vastano, Ettore Masi e Giovanni Mori (gli ultimi due sono ancora soci presso l’Osteria dei Cavalieri e la Sosta dei Cavalieri). Giovanni Mori (foto di apertura), che intervisto nel suo ristorante, era all’epoca un operaio Fiat. Per “il Violino” si licenzia ancora prima che il locale apra: «Per quel posto abbiamo fatto tutto, pure i muratori e gli imbianchini. Alla Fiat fui assunto nel 1967, e subito mi trasferirono a Torino. All’inizio stavo male, malissimo. Lo stipendio lo lasciavo a un signore che aveva una specie di pensione. Poi affittai un appartamento con altri ragazzi, si viveva così. Qualcuno doveva cucinare, quello più portato ero io. Per questo dico sempre che cucinare è stata prima di tutto una necessità. Poi le cose migliorarono, conobbi altri compagni, Lotta Continua, la vita di fabbrica».
«Giovanni ha fatto tanto alla Fiat, lo trovi sui libri sul ’68», mi dice Augusto Cava, titolare del Braque Bistrò di via dei Mercanti. «Conoscevo tutti i “compagni ristoratori”: Vanni e Cionini dei Vecchi Macelli, Afo Sartori che aveva l’Artilafo in via Volturno, Carlo Silvestrini e quelli del Violino. I loro locali non erano le solite osterie, proponevano piatti più elaborati, avevano delle idee. Al Violino poi ci si stava benissimo, c’era quella bella griglia in mezzo alla sala. Te lo ha raccontato Mori della scamorza fatta allo spiedo?».
Sì, me l’ha raccontato, e c’è stato un bel po’ a spiegarmi quest’idea rubata in un viaggio al Sud e arricchita di una piccola sfida: «Facevamo la famosa “scamorza alla fiamma”, rimasta nella Storia. Mi venne in mente che si potevano infilzare le scamorze dentro uno spiedo, per poi girarle a mano, piano piano, perché diventassero colorate fuori e sciolte dentro. Ogni tanto se ne perdeva una, andava a finire nella brace, però era bello, anche perché era fatto in diretta. Era bello da vedere ed erano cose che non si mangiavano, a quel tempo dico».
Sul punto insiste anche Silvestrini: «Io volevo tirar fuori delle cose, perché mi piaceva. Ai clienti dello Schiaccianoci chiedevo: “Che si fa? Sbagli te o c’indovino io?”. Così facevo assaggiare delle novità. All’inizio c’era un po’ di titubanza, gli accostamenti e i piatti sembravano strani: il pesce crudo o il petto d’anatra all’aceto balsamico».
Dibattere di cucina è ciò che tutti loro preferiscono, ma Giovanni parla anche di “metodo”, lo chiama proprio così: «Nella nostra idea di ristorazione c’era un metodo: ognuno ci metteva del suo, ma dentro una visione collettiva, come eravamo abituati a fare dalla militanza».
Carlo Martini, oggi padrone del Di di qua d’Arno, rivendica una lunga storia di ristoratore già dal nome del locale, discendente di quel Di là d’Arno gestito anni fa con “il Lulli e Sandrone”, Renzo Lulli e Sandro Bettin, in seguito diventati artisti.
«Devi sempre andare avanti – dice Martini – Per me che ho fatto il cameriere tanti anni è pure normale. Faceva parte di noi, eravamo abituati a un ritmo di vita incredibile, non si dormiva mai, e vivevamo sempre insieme. Io abitavo sopra la sede di Lotta Continua in via Palestro, e da casa mia ci passavano tutti. Dopo le riunioni credo di aver sfamato mezza Pisa. Non io, mia moglie che in cucina ci ha sempre avuto l’estro. A casa mia ci sono state le prime riunioni di femministe». «Facevano autocoscienza?» chiedo. «Sì, quella cosa lì», e mi guarda un po’ stupito. Carlo Martini era responsabile del finanziamento di Lotta Continua, un ruolo che gli ha passato direttamente Giovanni Mori. È energico nel descrivere l’impegno quotidiano per finanziare l’organizzazione e il giornale: «Ho tutti i numeri di Lotta Continua, avevo anche un grande archivio di documenti che ho donato alla Biblioteca Serantini».
Era bello fare le cose insieme, dicono, chiudere i locali a tarda notte e mettersi in viaggio per l’Italia, alla scoperta di cantine e ristoranti. «Mica avevamo il rappresentante dei vini, bisognava muoversi», mi spiega Silvestrini.
«Facevamo tante cose insieme, non c’era invidia», racconta dal canto suo Giovanni Mori. «Potevamo decidere di avventurarci in Piemonte, ad esempio. Allora ci incontravamo il sabato a mezzanotte dopo le chiusure, facevamo un po’ di strada in auto, si dormiva da qualche parte e la mattina eravamo già lì per visitare le cantine. Carlo sul vino ci prendeva e ci prende ancora. Poi facevamo acquisti collettivi per avere degli sconti».
La fortuna forse è stata questa: fare cose diverse, scoprire prodotti buoni, andare alla ricerca, muoversi verso il cibo come una piccola avanguardia.
Mentre prendo appunti Silvestrini mi dice: «Potresti scrivere “Il potere all’inventiva”, una frase storica di quei tempi». Potrei.
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